«Un amico di mio padre faceva il cuoco e mi parlava del suo mestiere che lo portava a viaggiare in giro per il mondo. Io ero un bambino e sognavo...». Fu così che De Vita divenne uno chef con la valigia. Parte presto per Venezia, dopo la scuola alberghiera e un tirocinio all' Hilton di Milano.
Nel 1993 è all' Hilton di Cannes, dove inaugura un intenso novennato professionale in tour per la Francia, lungo il quale incontra niente meno che Alain Ducasse, al «Cortile» di Parigi. Al rientro in Italia, il monumentale Aristide ha un ricco bagaglio professionale, una moglie portoghese che cucina per lui e due figli, Elena e Pietro. La valigia, a questo punto, ritorna nell' armadio. Finiti i viaggi? «Per ora, sì. Ma non perché mi sia stufato. È che con la famiglia non è facile spostarsi».
Di carattere affabile e schivo, De Vita coltiva una cucina «alta», ma comprensibile: «Voglio che risulti fresca e colorata. Però, non amo le stravaganze» sottolinea lui.
«Rimango sul semplice, anche se mi piace introdurre sempre qualche idea in più che arricchisca il piatto». Identico approccio si rileva nei risvolti umani. Nessun ghiribizzo da primadonna, nessuna passerella tra i tavoli per rastrellare collette di elogi. Anzi, offre un' idea opposta, sia quando dice: «Non mi piace molto andare in sala, sono un po' timido. Preferisco che venga qualcuno da me... io sto bene nel mio ambiente, la cucina». Sia quando precisa: «Per essere buon chef, occorre una buona brigata. Altrimenti non sei nessuno.
Noi abbiamo la fortuna di essere affiatati e i risultati credo si vedano». E anche l' epilogo della nostra chiacchierata è un omaggio affettuoso, che smentisce il cliché diffuso dello chef un po' vanesio, star da copertina. «Il mio piatto preferito? Probabilmente il baccalà alla portoghese. Ma non uno qualsiasi: quello che prepara mia moglie». Valerio M. Visintin
Nel 1993 è all' Hilton di Cannes, dove inaugura un intenso novennato professionale in tour per la Francia, lungo il quale incontra niente meno che Alain Ducasse, al «Cortile» di Parigi. Al rientro in Italia, il monumentale Aristide ha un ricco bagaglio professionale, una moglie portoghese che cucina per lui e due figli, Elena e Pietro. La valigia, a questo punto, ritorna nell' armadio. Finiti i viaggi? «Per ora, sì. Ma non perché mi sia stufato. È che con la famiglia non è facile spostarsi».
Di carattere affabile e schivo, De Vita coltiva una cucina «alta», ma comprensibile: «Voglio che risulti fresca e colorata. Però, non amo le stravaganze» sottolinea lui.
«Rimango sul semplice, anche se mi piace introdurre sempre qualche idea in più che arricchisca il piatto». Identico approccio si rileva nei risvolti umani. Nessun ghiribizzo da primadonna, nessuna passerella tra i tavoli per rastrellare collette di elogi. Anzi, offre un' idea opposta, sia quando dice: «Non mi piace molto andare in sala, sono un po' timido. Preferisco che venga qualcuno da me... io sto bene nel mio ambiente, la cucina». Sia quando precisa: «Per essere buon chef, occorre una buona brigata. Altrimenti non sei nessuno.
Noi abbiamo la fortuna di essere affiatati e i risultati credo si vedano». E anche l' epilogo della nostra chiacchierata è un omaggio affettuoso, che smentisce il cliché diffuso dello chef un po' vanesio, star da copertina. «Il mio piatto preferito? Probabilmente il baccalà alla portoghese. Ma non uno qualsiasi: quello che prepara mia moglie». Valerio M. Visintin
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